Un paio di settimane fa Giuseppe Granieri ha svolto una riflessione piena di stimoli, su cui vale la pena tornare. “Istruzioni per pubblicare un libro nel 2013” sembrerebbe una bella apologia del self-publishing ma è, secondo me, qualcosa in più: è l’occasione per parlare di quali libri possano essere adatti ai tempi che stiamo vivendo.
C’è da sperare, innanzitutto, che Granieri receda dal suo funesto proposito di non scrivere più saggi («Sono diversi anni che non scrivo un libro e per una serie di circostanze non credo che ne scriverò mai più uno, a meno che non mi metta a scrivere romanzi») perché dei suoi saggi abbiamo bisogno, non fosse altro che per affinare le lame del pensiero critico intorno ai temi della tecnologia e del suo rapporto con noi esseri umani. Del resto, come mi disse una volta Ruggiero Romano, un buon maestro è quello che ti indica la strada da evitare, non quella da percorrere.
Non so a voi, ma a me ogni volta che lo leggo sul web (e soprattutto quando ho letto i suoi libri) mi succede una specie di coitus interruptus intellettuale: mi manca sempre qualcosa. Il problema è mio, si capisce: è evidente che, in una maniera illegittima, le mie aspettative vanno al di là dei testi. Mi è successo anche con quest’ultimo post: è tutto molto condivisibile – e quindi foriero di un’emozione positiva, di un senso di comunione e condivisione, quasi di un ecumenismo digitale – per il semplice fatto che tutto è semplice, immediato: il ragionamento scorre bene, è fluido, non incontra ostacoli. Fu sempre Ruggiero Romano, però, che mi disse di non fidarmi mai delle cose semplici. Pace all’anima sua.
In concreto. Il primo passaggio che mi pone un interrogativo è questo:
[…] il concetto che poi Amazon avrebbe semplificato bene lanciando i singles: «idee alla loro lunghezza naturale»
La domanda, diceva quell’altro, sorge spontanea: qual è la lunghezza naturale delle idee? E ha senso porsi una domanda del genere? In fondo, non è di idee che tratta un qualsiasi saggio, ma di ragionamenti, cioè sequenze articolate di concetti, che è tutt’altra cosa. Senza entrare in discorsi troppo filosofici, chiediamoci però se “il concetto che poi Amazon avrebbe (e)semplificato bene lanciando i singles” non equivalga a una nozione di brevità forse un po’ troppo data per scontata. Perché se è vero che la lettura digitale predilige formati diversi da quelli tradizionali (sappiamo come siano tornati in auge il feuilleton, le novelettes e così via), è anche vero che stiamo parlando di narrativa, non di saggistica.
Quando uscirono i primi saggi di 40k, la casa editrice digitale diretta da Granieri, io ne rimasi entusiasta, perché rappresentavano davvero una sperimentazione interessante e fertile; e rimpiango il fatto che dopo quella prima serie non ne siano usciti altri dello stesso calibro. Ma all’epoca eravamo in pochi a leggere saggi su un e-reader, mentre oggi sappiamo che i numeri della lettura digitale sono cresciuti – trainati naturalmente dalle vendite dei dispositivi, tablet su tutti – e che il mercato, nullo die sine linea, è in espansione. Allo stesso tempo, come è emerso nell’ultima edizione di Librinnovando, le vendite di saggistica (latamente intesa, includendo quindi anche i manuali di cucina e quelli di self-help, per esempio) rappresentano circa un quinto delle vendite totali. La situazione, cioè, sembrerebbe paradossale: la lettura digitale cresce – con le sue possibilità di diffusione, interazione, fruizione – ma la diffusione di idee e saperi no, o per lo meno non tanto.
Non a caso, Granieri continua dicendo che
quando scrivi un saggio la cosa che ti interessa di più è regalare il miglior destino possibile alle tue idee. E farle circolare, aprirci una conversazione intorno. Magari emendarle e migliorarle con il contributo dei commenti.
Si fa fatica a dargli torto, per il semplice fatto che ha ragione. Ma come dicono gli americani, this is not the end of the story. Secondo me “quando scrivi un saggio, la cosa che ti interessa di più” è scriverlo bene, cioè dare una forma logica e coerente ai tuoi ragionamenti (che poi non sono mai completamente tuoi, ma sono il frutto di prestiti e miscelazioni e incroci); accertarti che l’uso che fai delle tue fonti sia trasparente e filologicamente corretto; che i dati in tuo possesso vengano trattati in maniera onesta, senza essere forzati dentro griglie interpretative nate a tavolino; che la forza della tua ipotesi di lavoro sia basata sull’aver analizzato ed escluso altre contro-ipotesi; che, in fatto di scrittura, i tuoi ragionamenti siano espliciti, senza passaggi saltati, e che i meccanismi del pensiero siano mostrati apertamente affinché il lettore possa fidarsi di te. Se un narratore non è certo obbligato a spiegare le sue scelte narrative (e anzi, un buon narratore è quello che disegna una storia senza farne vedere gli elementi architettonici), un saggista è invece obbligato a mostrare l’ossatura, lo scheletro della sua riflessione, in ogni minima parte. In un mondo ideale – o per lo meno in un mondo intellettualmente onesto – un saggio dovrebbe circolare solo dopo aver soddisfatto queste condizioni. Granieri ha ragione da vendere quando dice che
in un mondo con i costi di pubblicazione e di distribuzione che tendono a zero, almeno per la saggistica, sono le idee (e non il supporto) a fare l’autore.
(ma io aggiungerei: sono le idee, e non il nome o i titoli, a fare l’autore).
Chiediamoci allora: come può la tecnologia favorire la diffusione di una saggistica pensata per la lettura digitale? Si tratta di un tema che mi sta davvero a cuore, per formazione e per deformazione professionale, direi, e da tanto tempo. Perché la saggistica ha un ruolo centrale nella formazione dell’opinione pubblica e nell’educazione dei cittadini (ho appena detto una banalità, lo so, ma talvolta è necessario ripartire dall’ABC). Proprio qualche giorno fa Clayton Christensen (l’autore di un celebre testo su come gli sviluppi della tecnologia modificano in maniera dirompente – disruption, la chiama lui – i mercati) avvertiva che dopo il giornalismo e l’editoria, il prossimo settore che subirà gli effetti dirompenti del digitale sarà quello dell’educazione universitaria. L’intervento di Christensen s’inserisce in un dibattito più ampio sugli effetti delle nuove forme di insegnamento come i MOOCs (massive open on-line courses) e più in generale all’interno della discussione che da qualche anno va avanti negli Stati Uniti sull’higher education bubble; per chi non ne sa nulla, qui c’è un video che riassume la faccenda. È pur vero che queste discussioni sono ancora lontane dal contesto italiano, se solo tre settimane fa il Consiglio Universitario Nazionale pubblicava questo breve – e disastroso – report sulla situazione dell’università italiana.
La domanda resta ancora inevasa: riconosciuto il ruolo formativo che la saggistica può assumere nei confronti di una comunità civile, possiamo pensare a una saggistica che senza rinunciare a dei criteri di qualità, di rigore scientifico, di coerenza interna si avvantaggi delle forme di diffusione e fruizione della lettura digitale?
È un po’ che ci rifletto, dicevo, e con più insistenza dopo aver curato La lettura digitale e il web. Con Marco Giacomello, l’altro artefice di quel libro, già nella primavera del 2012 provammo a metter su un progetto che facesse tesoro dell’esperienza e dei contatti che avevamo costruito intorno ad esso e che fosse di più ampio respiro. In breve, progettammo una collana di ebook su temi e problemi della cultura digitale (definizione vasta, che abbracciava questioni che andavano dalla domotica al citizen journalism): io mi occupai dell’ossatura generale del progetto, del benchmarking, della definizione delle caratteristiche di contenuto; Marco degli aspetti legli e contrattuali; insieme pensammo a (e in parte contattammo) alcuni possibili autori; infine la proponemmo a un grande editore. Ci accolsero gentili e incuriositi, ci ascoltarono, ci provocarono con domande intelligenti a cui provammo a dare risposte che speravamo altrettanto intelligenti. Discutemmo circa sei mesi, fino a quando l’editore, con molta cortesia ma senza spiegarci il perché, ci disse “no, grazie”.
Pazienza. Anche senza averle ascoltate, nella mia testa potevo immaginare tutte le loro riserve – quando posso, cerco di essere empatico, diciamo. Ma il lavoro che avevamo fatto secondo me era buono ed era un peccato abbandonarlo. Lo ripresi, lo riarticolai con un taglio molto più “militante” e meno didascalico e, complice una circostanza fortuita di cui racconterò nel [MESSAGGIO PROMOZIONALE] mio saggio di imminente uscita sul lavoro culturale dei blog [FINE MESSAGGIO PROMOZIONALE], ebbi modo di presentarlo a un piccolo editore digitale: un bel powerpoint di più di 30 slides, cucite su misura; due ore di riunione su Skype per raccontarle.
Piacque. Ebbe il nulla osta, si partiva. Mobilitai alcuni degli autori, che galvanizzati da questa opportunità si misero a scrivere di gran lena. Io editavo passo passo, suggerivo, correggevo. Pensavo anche alla comunicazione e alla promozione. Arrivarono i contratti e una vera e propria lettera d’incarico come curatore. Poi, come nelle migliori delle telenovelas, il dietrofront! Stop alle macchine, non se ne fa più nulla, non ci sono le risorse! Uhm. In una telefonata ansimante, l’editore mi disse che si erano accorti (n.d.r.: tre mesi dopo la presentazione del progetto) di essere partiti troppo di fretta, di aver forse frainteso; e mi diede un buon consiglio: “un progetto del genere può partire dopo che si è sviluppato un dibattito intorno ad esso“. Ecco, questo post serve anche a ciò.
Con il capo cosparso di cenere, avvisai gli autori. Per fortuna un autore con cui avevo lavorato a stretto contatto, l’ottimo Jumpinshark, e che ha scritto un bel libro sul giornalismo digitale in Italia, riuscirà lo stesso a pubblicarlo (in digitale) ai primi di marzo con nientepopodimeno che Minimum Fax. Cosa di cui sono davvero contento, sia perché in quel libro c’è anche un piccolo po’ di mio lavoro sia perché è importante che il lavoro culturale che Jumpinshark e altri svolgono in rete da tempo trovi un riconoscimento formale.
Che cosa c’era in quel progetto? Portate pazienza, mettetevi comodi e leggete avanti, sapendo però che quanto segue è solo una sintesi ridottissima di un progetto molto più articolato – una sintesi che si concentra, per il momento, solo sulle definizioni di partenza.
(Se poi ci fossero altri editori interessati, io ben felice di discuterne, eh!)
Il progetto riguarda una collana di saggistica digitale, che provi a raggiungere due scopi allo stesso tempo: indagare e divulgare. L’oggetto d’indagine sono i fenomeni sociali e culturali di attualità, soprattutto quelli legati alle tecnologie digitali; per attualità non intendo il limitato orizzonte cronologico del presente ma quell’insieme di problemi e temi che riguardano – al di là dei limiti temporali – il nostro rapporto (come individui e comunità) con la storia recente e con il futuro prossimo. La divulgazione consiste nello s-piegamento (in senso etimologico) dei problemi attraverso la s-piegazione (in senso didattico) dei loro meccanismi di funzionamento. La spiegazione deve essere di taglio alto ma non accademicista: questo vuol dire che nella composizione dei testi è d’importanza centrale la struttura del libro (articolazione di testi e parti, TOC, paretesti, appendici etc) e il linguaggio adoperato.
La natura digitale della collana consiste in una serie (non esaustiva) di caratteristiche: dimensioni, formati, reperibilità, comunicazione e promozione. La natura digitale dei testi si articola intorno a questi tre assi: struttura, linguaggio, evidence.
La struttura di un saggio in digitale è data da alcuni elementi, che possono ovviamente variare in funzione del contenuto: capitoli/paragrafi brevi, link esterni e interni al testo, glossari di approfondimento, paratesti, materiali multimediali etc. La dosatura di ciascuno si determina in funzione dell’argomento.
Il linguaggio esclude la complicazione ma non la complessità: richiede un minimo sforzo al lettore ma non lo considera uno stupido, spiegando cose non necessarie; un testo ben scritto è ricco di definizioni operative, con periodi non lunghissimi, esemplificazioni frequenti, ritmo adeguato. Adatto, dunque, a una lettura più veloce, talvolta frammentaria (per luoghi ed occasioni), come quella digitale.
Per evidence mi riferisco a tutte le informazioni, dati, esempi, case histories, link, materiali multimediali e così via che servono da supporto empirico alle affermazioni/ipotesi/tesi di un testo. Sempre in funzione dell’argomento, l’evidence può essere embedded (e secondo me è preferibile) oppure contenuta in sezioni apposite (appendici).
Se è vero quanto si dice, e cioè che content is king, la natura saggistica dei testi della collana deve prevalere sulla natura digitale. Questo significa che le opportunità tecniche della lettura digitale possono e anzi devono offrire un’esperienza che su carta non si avrebbe, ma non al prezzo di snaturare la qualità argomentativa e contenutistica di un saggio.
Questo secondo me.
Ora, non penso affatto che questa riflessione, e il progetto editoriale che ne consegue, siano definitivi e intoccabili, ci mancherebbe. Penso che sia un buon terreno di partenza affinché coloro i quali hanno a cuore la diffusione dei saperi, l’educazione civica, l’incremento di occasioni di riflessione critica e dibattito, possano cominciare (o continuare, si capisce) ad affrontare le molteplici implicazioni della pervasività delle tecnologie nelle nostre esistenze. Se sei tra questi, e hai qualcosa da suggerirmi, io ascolto ben volentieri.